Everest (2015)

Everest, il film

Il film Everest porta sullo schermo un’ambientazione affascinante e ottimi attori, anche se alcuni in ruoli marginali, e lo fa in modo particolare, mescolando una scrittura volutamente poco invadente, tipica del documentario, a uno stile di ripresa spettacolare che però che non sfocia mai nell’immagine da depliant o nell’epica autocompiaciuta del genere catastrofico.

Il film racconta una storia vera. Nei primi anni ’90 la scalata al monte più alto del mondo non è più un’impresa temeraria per esploratori ma un’”impresa” commerciale, una proficua attività turistica nell’ambito degli sport estremi. E nel 1996, ai piedi dell’Everest c’è addirittura un ingorgo di spedizioni: 20 squadre di ricchi dilettanti pronti ad entrare nella cosiddetta “death zone”, la zona al di sopra degli 8.000 metri di altitudine. I rischi dovuti al freddo e alla scarsità di ossigeno (esposti chiaramente da un personaggio all’inizio del film, secondo un procedimento narrativo classico) spaziano dalle crisi respiratorie, ai vari gradi assideramento, alla perdita delle funzioni motorie, al disorientamento, e vanno a sommarsi ai pericoli della scalata.

I due sceneggiatori, William Nicholson e Simon Beaufoy (quest’ultimo autore dello script del film di Danny Boyle “127 Hours”) ci raccontano la tragica vicenda di due team alpinistici: “Adventure Consultants”, guidato da Rob Hall, e “Mountain Madness” di Scott Fisher. La narrazione ha una prima parte preparatoria, più lenta, e uno sviluppo che accelera drammaticamente verso il finale. Gli elementi caratteristici del “disaster movie” ci sono tutti, ma vengono smussati e mantenuti in secondo piano, per dare un tono il più possibile realistico al film. La narrazione non privilegia un personaggio in particolare, è la storia di un gruppo, e questo porta lo spettatore a un minore coinvolgimento emotivo, difetto amplificato anche dal fatto che, tra tempeste di neve e abbigliamento pesante, a volte i singoli attori non sono distinguibili tra loro. La caratterizzazione è presente anche se non sottolineata e, malgrado i personaggi siano ispirati a persone reali (o forse proprio per questo), presenta molti dei ruoli classici del cinema (il Leader Ragionevole e Generoso, l’Irresponsabile Ma Simpatico, l’Uomo Mite, il Ricco Arrogante).

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Girato in 3D, Everest è quindi una classica storia del tipo “Man against Nature”, e il tema della feroce indifferenza della montagna per i “piccoli uomini” è alla base della resa visiva del regista islandese Baltasar Kormakur e del direttore della fotografia Salvatore Totino. Al centro dell’inquadratura c’è quasi sempre il gruppo degli scalatori, e le immagini imponenti della montagna hanno principalmente la funzione di dare l’esatta misura dell’ostilità dell’ambiente.

La documentazione del film è stata fornita dal libro-reportage “Into the Thin Air” (“Aria Sottile”, ed. Corbaccio) del giornalista Jon Krakauer, che faceva parte del team “Adventure Consultants”. Ma esistono parecchi altri libri sulla storia, che mostrano altri punti di vista: “Left for Dead: My Journey Home From Everest” di Beck Weathers (“A un soffio dalla fine”, ed Corbaccio); “A Day To Die For” di Graham Ratcliffe; “The Climb: “Tragic Ambitions on Everest” di Anatoli Boukreev e G. Weston DeWalt; “After the Wind” di Lou Kasischke. Nel 1998, inoltre, è stato girato, sulla stessa vicenda, il documentario “Everest” di David Breashears, Stephen Judson e Greg MacGillivray.

Il film ha aperto la mostra del cinema di Venezia del 2015.

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Confronta

> Il documentario inglese (e il libro da cui è stato tratto) “Touching the Void” (“La morte sospesa” – 2003, regia di Joe Simpson), “The Wildest Dream: Conquest of Everest” (2010, di Anthony Geffen), “Sherpa” (2015, di Jennifer Peedom), il film tedesco “North Face” (“North Face – Una storia vera” 2008, regia di Philipp Stolzl) su una tragedia accaduta durante una spedizione sulle Alpi nel 1936, “Meru” (2015, di Jimmy Chin e Elizabeth Chai Vasarhelyi).
> I film sulla sopravvivenza in condizioni di ambiente drammatiche, come per esempio “Gravity” (2013) o “The Martian” (“Sopravvissuto”, 2015).

Alessandro Manitto